Michela Marcon
Figlia del mio tempo e del luogo di confine in cui sono nata. Ho iniziato negli anni Novanta con la sperimentazione del colore e della materia durante gli studi all’istituto d’arte di Gorizia. Affascinata dall’informale prima, concretizzata con l’arte musiva poi, durante gli studi alla scuola mosaicisti del Friuli. Trovai in essa posto al centro come energia espressiva della materia, quasi a controbilanciare la ricerca formale, sentita dunque come esigenza del pratico, del prodotto, del recupero dell’essenziale attraverso materiali naturali e durevoli nel tempo. Vi era in tutto questo la necessità di oppormi alla possibile degradazione futura del prodotto. Ma l’ineluttabile intuito mi indirizzava sempre più alla problematica dei limiti tecnici che mi dava l’esecuzione musiva. Pertanto passai alternando ma senza esitazione alla ri-sperimantazione pittorica. I primi esempi a cui ho fatto riferimento sono stati quelli che arrivarono dallo studio riguardante l’ arteterapia, ad indirizzo antroposofico di Rudolf Steiner. I colori (dunque anche il nero) usati in polarità, hanno assunto un valore sensoriale e terapeutico.
In tal senso conseguente fu la scoperta dell’individuo e quindi del corpo come linguaggio per una riacquisizione di una sua centralità. La svolta decisiva a vantaggio della fotografia avviene ormai da ultra quarantenne, conseguente al fatto di appurare che l’insieme ha un proprio linguaggio fatto di analogie e relazioni che proprio la fotografia può disvelare. La fotografia diventa per me quindi mezzo che mette in relazione l’infinita varietà della materia e che permette di costruire microracconti (Scrittura per immagini) che evocano sensazioni ed esperienze vissute, interne, appartenenti allo stato di diverse percezioni. Del resto il progressivo prevalere di una dominante naturale, quella umana, va nel senso di volere raffigurare immagini senza tempo. Interni e ritratti hanno un ruolo centrale mai a vantaggio dell’una o dell’altra, spesso esse si compenetrano. Affiora una necessità costante: quella alla ricerca di una sintesi in divenire tra tradizione e innovazione, dove il nuovo deve avere radici profonde. Emerge quindi un metodo ciclico del trapasso da una tecnica all’altra, da una forma ad un’altra, da un materiale all’altro, così tutto rifluisce nel tutto.
Sono una manipolatrice della materia. La frantumo in tessere musive che trasformo in figure, la organizzo in blocchi nodali che trasformo in spazio, la consumo in pasta colorata che trasformo in dipinti, la riassumo squarci immobili che trasformo in immagini. Il mio lavoro di mosaicista di decoratrice di pittrice di fotografa nasce da una profonda fiducia nella dispersione della materia, nella possibilità di farne collassare la struttura, in vista di una continua emorragia di cose, di fatti, di logica, di senso. me stessa nelle parole di Roberta TURRIN SCANDOLARA